LOTIZZAZIONE

 

«Onorevole Vespa, lei è stato sconfitto come l’onorevole Forlani: se ne deve andare». Con queste parole l’allora segretario del Pri Giorgio La Malfa commentava al Tg1 la disfatta della Dc alle politiche del 1992. Il giorno dopo Vespa precisava: «Il mio editore di riferimento è la Democrazia Cristiana». E’ il tramonto del consiglio d’amministrazione composto con la regola del: sei democristiani, quattro comunisti, tre socialisti, un repubblicano, un socialdemocratico e un liberale.

 

Uno schema che si riflette nelle redazioni con una variante: una fetta della torta spetta anche all’Usigrai, il potente sindacato dell’Azienda perché, come disse l’ex-sindacalista Gianni Scipioni Rossi: «in Rai sono lottizzati anche i sampietrini del cortile».

 

Questa è la Rai. Un’azienda che in 48 anni di vita è costata, fra aiuti e canone, 62.000 miliardi. In passato per ogni buco di bilancio, per ogni spreco, c’è sempre stata una leggina pronta a ripianarlo. Questa la regola aurea che ha governato il rapporto tra politica e azienda sino al 2002.

 

Nel 1968 Alberto Ronchey inventa la più italiana delle parole: lottizzazione. La conia in occasione della prima grande infornata di comunisti in viale Mazzini. In 14 anni Bernabei, tanto caro ad Amintore Fanfani, firma 6.000 contratti d’assunzione raddoppiando gli organici; i contratti a tempo determinato diventano 44.000, i collaboratori 100.000. Siamo a metà degli anni settanta: dodicimila dipendenti, 1.659 giornalisti e un costo del lavoro che incide per il 38% sul fatturato. Per comprendere meglio le cifre basti pensare che i dipendenti di Mediaset sono un terzo, i giornalisti un ottavo e il costo del lavoro incide per il 15%. Tutto nasce da qui. È questa la pesante eredità di Bernabei che sino ad oggi nessuno è riuscito ad intaccare.

 

Comincia l’era socialista delle presidenze Rai (dal 1975 al 1993) e quella democristiana delle direzioni generali. Negli anni 80 è tutto più facile per la sinistra con Biagio Agnes, vicino a Ciriaco De Mita, direttore generale con l’appoggio del Pci. Lui baratta la direzione generale con Telekabul, regalando la nascente Rai3, quella che avrebbe dovuto essere la rete federale, ai compagni Guglielmi (un intellettuale comunista che aveva fondato con Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Alberto Arbasino il Gruppo ’63) e Curzi già vicedirettore di Paese Sera. In sette anni di mandato Agnes assume 3.858 persone il 60% delle quali ha la tessera del Pci. La redazione dell’Unità si era trasformata nell’anticamera per l’assunzione in Rai. Questo spiega come quindici anni dopo, una volta alla guida del Paese, le sinistre non avranno bisogno di affannarsi: dentro viale Mazzini la strada è spianata da tempo.

 

Lo scandalo degli anni ottanta del programma della Carrà è emblematico dello stato di degrado dell’Azienda. A New York viene ricostruito uno studio faraonico, alla Raffaella nazionale viene realizzata una vasca idromassaggio nel camerino, la parrucchiera personale inclusa insieme ad altre cento persone per un totale di sette miliardi. Tocca a Clemente Mastella difendere la Raffaella Carrà e la trasferta miliardaria: «Non si può pensare di andare in America a fare gli straccioni”.


Gli stipendi di quell’epoca sono favolosi: Donatella Raffai per ‘Chi l’ha visto?’ guadagna più di un miliardo l’anno, seguita da Fabrizio Frizzi e Enzo Biagi. Nino Frassica fa ridere in siculo per 884 milioni, Gianni Ippoliti filosofeggia per 580 milioni e Piero Chiambretti s’accontenta di 529. L’ex allenatore Aldo Agroppi regala pareri sul calcio a 216 milioni.

 

Stipendi e benefici. I giornalisti Rai hanno un’indennità assurda: quella video. Trattandosi di un’azienda televisiva dovrebbe essere normale è come se un panettiere avesse l’indennità per impastare. C’era poi un altro privilegio medioevale: il diritto alla successione familiare assunto a prassi aziendale: tra il ’93 e il ’94 un’assunzione su quattro è stata regolata dallo scambio genitori-figli.

 

I conti continuano a non tornare. Umberto Bossi comincia a parlare di privatizzazione (vi ricordo che fu il primo) e a teorizzare il decentramento. «Spostiamo una rete a Milano e un’altra a Palermo – disse - Se gli togli da sopra la casa, scopri i topi». Come aveva ragione. Però anche lui si adegua alle regole del tv di stato: Gabriele La Porta entra in Rai come leghista, poi si sposta a sinistra fino a Rifondazione.
Dicono i maligni: «Oltre non può, c’è il muro di cinta del cortile».

 

Siamo nel luglio del 1996, la stagione così cara a Fabio Fazio, a Jovanotti e al migliaio di miracolati dalla Rai dell’Ulivo. Durante la Tv ulivista per guadagnare o perdere la poltrona di consigliere d’amministrazione basta un cenno di Veltroni. L’oggi sindaco di Roma in una settimana riesce nell'ancora ineguagliata impresa di attraversare tutto il palinsesto della Rai: Napoli capitale, Telecamere, Speciale Parlamento, Tempo reale, Mixer, Speciale Tg1, Linea tre. A ‘Notte Cultura’ elenca i suoi libri da comodino, a ‘Storie’ racconta il suo cinema di formazione, a Bruno Pizzul la sua Juventus. È l’inizio della Tv dell’Ulivo che resisterà fino al 2002 con l’uscita di scena di Roberto Zaccaria. È l’aprile del 1996. Il carrozzone Rai, devastato da 40 anni di lottizzazione, pieno di debiti, viene occupato militarmente da una nuova tecnocrazia di centro sinistra.


Gli eccessi sono subito evidenti. A Carramba Raffaella Carrà incensa un giovane attore in tournée con il suo ovviamente splendido spettacolo, Francesco Siciliano. E’ solo un caso che sia figlio del presidente della Rai. Nella fiction ‘Un posto al sole’ (firmata da Giovanni Minoli) i protagonisti ad ogni piè sospinto si soffermano sulle bellezze di Napoli ma sopratutto sulle virtù dell’allora Antonio Bassolino. Continua l’esodo dall’Unità. Arrivano in Rai: Rosanna Cancellieri, Antonello Caprarica, Guido Dell’Aquila. Dall’altro foglio di sinistra, Paese Sera, hanno invece militato Lamberto Sposini, Neliana Tersigni e Pizzinotto. Più i fedelissimi Francesco Mannoni, Bianca Berlinguer, Flavio Fusi, Massimo Loche.


L’ideologicamente puro Michele Santoro non fa altro che camminare nel solco della tradizione inaugurata nel 1994 da Enrico Deaglio, ex direttore di Lotta Continua, ex socialista martelliano d’acciaio. Sono sicuro che farei un torto a non citare alcuni recenti direttori del tg1 di comprovata fede: Lerner 'ghost writer' di Prodi, Brancoli capo-ufficio stampa di Prodi, Volcic senatore del centro-sinistra, Fava che è stato candidato centro-sinistra, Longhi, La Volpe, Rizzo Nervo.

 

Privatizzazione e decentramento questa è la ricetta della Lega Nord, questo è quello che stiamo faticosamente realizzando, passo dopo passo, mattone su mattone. Il vostro nervosismo, la vostra agitazione, l’accanimento con cui tentate invano di fermare la storia mi conforta e tranquillizza: siamo sulla strada giusta.